MANASLU TREK – NEPAL

di Nicola Perin

Polvere… Dannata polvere. Pensavo che dopo Kathmandu e l’apocalittico viaggio in fuoristrada per le strade di terra del distretto di Gorka me ne sarei liberato, invece durante tutto questo trek la polvere e la sabbia sono state una costante. Almeno a bassa quota veniva alzata solo dalle automobili e dalle numerose moto, ma sono quasi 10 giorni che non vedo un mezzo motorizzato… In tutto questo tempo mi ero quasi dimenticato quanto fastidiosa fosse quando si alza in grande quantità… Quassù il vento che sferza perenne me la sbatte in faccia a ogni folata! Anche da solo il vento non sarebbe molto piacevole: è gelido, tagliente… fa freddo, o meglio… ho freddo. Quando mi sono alzato ho indossato tutto quello che avevo dentro lo zaino, eppure ho comunque freddo, soprattutto alle gambe, maledizione! Per non portare un chilo in più nello zaino ho lasciato da parte il vestiario più pesante… Un’altra cosa da ricordare per il prossimo trek, un undicesimo comandamento: portare la tuta da sci! Da Samagaon in poi il freddo è stato una costante, almeno la sera…e la sera qui arriva presto, alle 3.30 il sole scompare dietro il grande Manaslu e in quel momento cala il gelo; legna ce n’è poca e le stufe si accendono solo dopo le 6, per la cena.

Samagaon è proprio bella, però! Quando siamo arrivati lì per la prima volta, quattro giorni fa, è stato un momento magico. La valle del Budhi Gandaki fino a quel momento era stata relativamente stretta. Pendii scoscesi, stretti canyon e pareti di gneiss costringono il sentiero ad estenuanti saliscendi e a frequenti cambi di sponda su traballanti ponti sospesi, che nonostante siano recenti e in acciaio, danno sempre un certo senso di vertigine e di insicurezza. Attraversandone più di qualcuno, ho notato i resti dei vecchi ponti in legno e mi sono chiesto come doveva essere attraversarli quando erano ancora in attività, magari incrociando una carovana di muli nello stesso momento… Jeet, la nostra guida, mi ha raccontato che in tutto il circuito c’è fermento: si costruiscono senza tregua case, strade, ponti e soprattutto alberghetti per i turisti, la vera risorsa del paese. Dopo i problemi politici che ha attraversato il paese negli anni duemila e i momenti difficili del terremoto del 2015 si respira ottimismo qui, e in realtà in tutto il Nepal il futuro è roseo. Forse non c’era nemmeno bisogno che me lo facesse notare una guida, dato che ovunque siamo passati si possono vedere nuove costruzioni e lavori in corso e, nonostante la miseria di alcuni contadini e i carichi stremanti e inconcepibili che portano i portatori, sembrano tutti contenti e sorridenti. Pare che la miseria sia visibile solo a noi, dimentichi delle storie dei nostri nonni.

Jeet ha cominciato a studiare a 10 anni, dopo aver passato l’infanzia a dare una mano alla famiglia come contadino e a spaccare pietre per liberare le strade del villaggio. I suoi genitori sono analfabeti, mentre lui sa tre lingue e lavorando come portatore e guida guadagna senza dubbio molto più di loro, facendo un lavoro che gli piace. La sua qualità di vita è indubbiamente migliore di quella dei suoi genitori e dei suoi nonni.

Un’ altra raffica di vento mi fa fermare un momento, alzo lo sguardo verso la lunga processione di persone che stanno davanti a me. Non vedo molto al buio, solo le sagome e i fasci di luce delle frontali. Un paio di portatori mi sorpassano con gli zaini di qulche turista sulle spalle… non sarebbe male essere senza questo macigno sulle spalle. Sto procedendo lentissimo stando dietro a Jeet e a Barbara. Fortunatamente non sto male, ma il mal di testa è sempre lì in agguato, e non appena aumento il ritmo sento l’aria mancarmi; allora mi costringo ad andare piano, un passo alla volta, aspettando di fare un respiro. Tempo ce n’è, siamo partiti alle quattro questa mattina, dopo una traumatica sveglia alle tre. Mentre ripenso a quanto caldi si stava nel sacco a pelo un altro portatore mi supera, è senza pila, come gli altri, mi chiedo come farà a vederci senza una luce. Chissà come faceva un’ora e mezza fa a camminare nel buio pesto! Ora effettivamente la pila non è indispensabile: si cominciano a distinguere le sagome delle pietre e del sentiero. Alle mie spalle il sole deve essere sorto dietro Samdo, dando alla siluette scura della montagna un’aura magica che si vede solo all’alba. Di nuovo noto il freddo, almeno ho la testa e il busto al caldo, ma le mani fanno male ogni volta che mi fermo un attimo per fare delle foto. Sorrido ripensando al gelo che avevo provato cinque giorni prima a Samagaon. Siamo arrivati lì il 25 ottobre verso le quattro del pomeriggio, un po’ tardi, ma daltronde cominciavamo a sentire la stanchezza di cinque giorni di cammino con lo zaino in spalle. Quel giorno qualche nuvola aveva cominciato ad ammassarsi fin da mezzogiorno, oscurando progessivamente il sole e facendo scendere il freddo. Quando finalmente dopo l’ultimo tratto di salita abbiamo scollinato sulla valle glaciale dove giacciono i grandi pascoli di Samagaon, stava già nevicando. Nonostante il brusco cambiamento di temperatura, la brutta giornata e la stanchezza sono rimasto colpito da questo villaggio: era nettamente più grande degli altri, tanto da sembrare una città con la sua distesa di tetti blu e rossi in lontananza e le siluette bianche e dorate dei monasteri e dei chorten, che sparsi tra le case davano un’atmosfera orientale e magica. La camminata è durata ancora una mezzoretta, dovevamo attraversare i grandi prati dove mandrie di yak, cavalli, asini e vacche pascolavano liberi. Qui si è ancora formalmente in Nepal, ma l’impressione è di essere in Tibet prima dell’invasione cinese. Oltre ai rifugiati che abitano lì e a Samdo, la popolazione nepalese autocatona è essa stessa di cultura e lingua tibetana. A rendere magica Samagaon inoltre è il Manaslu: regna imponenete su tutta la valle e fa impallidire tutte le montagne che lo circondano. È una montagna splendida e molto slanciata. Di notte, nel silezio della città che dorme, si possono sentire i brontolii distanti dei serracchi che cadono e delle valanghe che si staccano dai suoi pendii, cadendo verso il lago glaciale.

Spengo la pila… ormai non serve più: saranno le sei e mezza i picchi alla mia sinistra sono già illuminati dal sole. Comincio a sentire il mal di testa e anche la fatica. Ho il fiatone. Il Larke Pass sembra infinito. Ogni volta che penso di aver raggiunto lo spartiacque scopro che esiste un altra dorsale più alta da salire, o un altra piccola discesa che mi fa perdere quota, irritandomi non poco. Il vento diventa progressivamente sempre più forte man mano che ci alziamo. Basta pensare al resto del viaggio! Ora devo concentrarmi sul mettere un piede di fronte all’altro.

Il tempo passa indefinito, saliamo piano piano su un paesaggio sempre uguale, fino ad attraversare una morena che scende sulla sinistra verso un lungo lago, ghiacciato e immobile. Siamo ancora in ombra, ma la luce ormai sta per raggiungerci. Mi fermo un attimo a riprendere fiato, ammirando intanto l’altra sponda del lago. A prima vista è un altro pendio di ghiaia, ma sotto le pietre e i ciottoli c’è del ghiaccio vivo che schiaccia il lago verso la morena. Continuo veloce, ormai ho il fiato corto per la quota ma mi sono stufato di procedere così lentamente! Anelo il sole, il suo calore e i suoi raggi di luce. Sento il cuore pompare impazzito e l’aria mancarmi, ma in mezzora sono uscito dall’ombra nella nuova giornata! Sono felice. Mi trovo in un posto incredibile, quasi a cinquemila metri. Fermo, seduto su un masso di granito bianchissimo a recuperare un po’ di fiato, ammiro una montagna dalla roccia bianca alla destra del passo. È il Pawar Himal alto appena (si fa per dire) 6500 metri, eppure tra il biancore della roccia e dei ghiacciai e quella strana banda di roccia rossa che attraversa il monte orrizontalmente sotto la cima, è magnifico. Il Larke Peak alla mia sinistra non è altrettanto bello; dalla mia posizione vedo solamente una terribile e inacessibile parete nord fatta di muri di ghiaccio, serracciate e pareti di roccia scura. È inquietante. Uno di quei ghiacciai lassù doveva avere una lingua di sciogliemento che scendeva fino ai miei piedi, a inizio secolo; ora ne rimane solo l’impronta piena di sfasciumi, massi erratici e collinete di ghiaia che coprono il ghiaccio più antico rimasto sul fondo. È una visione aliena.

Nel frattempo, qualche gruppo è rimasto indietro mentre qualche altro è scappato in avanti, creando una piacevole vista: una massa di persone colorate in movimento, tra le ghiaie e i prati del passo. Jeet e Barbara mi raggiungono e di lì a poco, dopo un meritato riposo, ripartiamo.

Raggiungiamo soli un laghetto ghiacciato completamente coperto di polvere e sabbia. Nuvoloni di polvere vengono alzati dal vento e illuminati dalla luce orrizzontale e proprio in quel momento, come sotto la regia di un regista hollywoodiano, appaiono due cavalli. Stanno ritornado indietro verso Darmashala o Samdo. La mattina li avevo intravisti nel buio, carichi di due Malesiani sofferenti per il mal di montagna, che evidentemente avevano già lasciati sulla cima. Stamattina erano due ombre scure che si muovevano nel buio, ora invece corrono magnificamente bardati delle stoffe colorate e dei campanellini in bronzo che compongono la sella e le briglie tibetane. Io, Jeet e Barbara ci blocchiamo imbambolati ad ammirare questa scena onirica ed incredibile. In fondo chi si aspetterebbe di trovare dei cavalli correre su una montagna a più di cinquemila metri?

Ripartiti da cinque minuti, con il solito andamento stanco e avvilito dovuto all’alta quota, intravedo finalmente delle bandiere colorate sopra di me! È lo spartiacque! Il passo! Incredibile ci siamo! Comincio a salire più velocemente. Salgo, salgo, salgo ed ecco che il sentiero spiana e gira a sinistra. Alzo lo sguardo ed eccolo! Un cumulo di pietre enorme da cui partono decine di corde con centianaia di bandierine colorate segnala il passo. Come in pellegrinaggio decine di persone colorate si fanno foto e si scambiano congratulazioni e sorrisi. È finita sono qui! Dopo tante paure, fatiche, giorni di cammino e mal di testa sono arrivato sul punto più alto del circuito del Manaslu!

Mi infilo anche io tra le persone felici sotto la pagoda di bandierine e mantra, e aspetto Barbara e Jeet parlando con gli altri presenti. Non appena arrivano facciamo le foto di rito, come tutti coloro passati prima e dopo di noi, e appendiamo il gagliardetto della sezione CAI di Motta, sperando che rimanga qui a sventolare per molto tempo!

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